Pubblicato da: giulianolapostata | 30 luglio 2011

Multivisioni – 30 luglio 2011

 Multivisioni

Consigli appassionati su cosa vedere – e non vedere! – in TV

“Il cinema americano ha successo perché loro fanno bene i film. Noi facciamo bene la pizza”

R. Benigni

“Il cinema italiano è deprimente”

Q. Tarantino

“Un qualsiasi stupido film americano contiene sempre un insegnamento, a differenza di un qualsiasi artistico film inglese”

 L. Wittgenstein

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Sabato 30 luglio

 

 

Domenica 31 luglio

 

Ombre rosse (J. Ford, USA, 1939), 18.00, DT

Vi può capitare com’è successo a me qualche tempo fa, di fare pigramente zapping seduti in poltrona, di capitare qui e dire: “Oh guarda, Ombre rosse, visto cento volte, che palle …”, e poi di non riuscire più schiacciare i tasti, né a spegnere la tv, e di restare lì, fino alla fine, qualsiasi cosa abbiate da fare, a rivederlo magari per la centesima volta. Perché vi rendete conto – per la centesima volta – che davvero, ‘di film così non se ne fanno più’; perché quei tipi, quegli stereotipi, quei ‘miti’, li riconoscete come parte intima dell’immaginario vostro e della cultura del Novecento; perché quella fotografia è magica; perché l’emozione e la commozione sono per la centesima volta nuove; perché vi rendete conto che di tutto quello che avete visto al cinema negli ultimi dieci anni, o anche venti o trenta, ad esser generosi forse saranno uno, o due, i titoli che possono stargli a pari. Ecco, può capitare così.

 

America 1929: sterminateli senza pietà (M. Scorsese, USA, 1972), 23.05, Sky

L’America della Depressione in tutta la sua disperazione ma anche in tutta la sua ferocia, in un’odissea violenta di disperati e di reietti. Uno dei migliori film di Scorsese, ed un’occasione per rivedere il magnifico e compianto David Carradine. Imperdibile.

 

 

Lunedì 1 agosto

 

L’Odio (M. Kassovitz, Francia, 1995), 22.35, DT

Dopo i disordini in una banlieue parigina, tre giovani vagano tutta la notte per Parigi, sognando, vendetta e riscatto. Uno è ebreo, l’altro arabo, il terzo nero: tutti e tre si portano addosso un’emarginazione che è ‘razziale’ e culturale, prima ancora che sociale. Nella lunga notte in giro per la Ville Lumière, essi constatano una volta di più che quelle luci non sono per loro. Cercano di dar sfogo alla loro rabbia, ma riescono a far venir fuori solo solitudine e disperazione: straziante il colloquio sul tetto della casa, mentre la città splende ai loro piedi, ed i tre sognano ‘cosa faranno da grandi’, sapendo bene che per loro non ci sarà né età adulta ne emancipazione.  Puramente e semplicemente un capolavoro, costruito con dialoghi convulsi e folgoranti e filmato in uno splendido bianco/nero. Assolutissimamente imperdibile.

 

Couscous (A. Kechiche, Francia, 2007), 18.25, DT

Ma perché, perché, da certi condizionamenti ideologici non ci si libera mai, e per parlare di questo film qualcuno ha dovuto tirar fuori, come termine di confronto, il Neorealismo italiano? Perché quello sciaguratissimo periodo del nostro cinema (non che poi sia andata molto meglio …) deve ancora aggirarsi come un fantasma – anzi come un incubo – nella cultura del nostro paese? Forse perché in CousCous il protagonista è il ‘popolo’? Ma nel Neorealismo il ‘popolo’ non c’è mai: c’è la sua ‘idea platonica’, snobistica e astratta, tipica della sinistra dell’epoca, che aveva ‘commissionato’ quel cinema. Forse perché ci sono i ‘sentimenti’ e i ‘valori’? Ma anche quelli erano assenti nel Neorealismo, sostituiti da un’insopportabile retorica ad altissimo rischio diabetico, che, sia pur di segno opposto, evidentemente risentiva della falsità ipocrita e trombona del Ventennio appena trascorso. A meno che … – ma no, non ci credo, non oso crederci, non voglio crederci! – a meno che qualcuno non abbia visto, nella tragica conclusione della vicenda di Slimane, col furto del suo motorino, un parallelo col furto di Ladri di biciclette. Ma sarebbe assurdo anche questo, perché qui la tragedia di una vita povera e di lavoro c’è davvero, e ‘almeno’ Slimane muore per recuperare quel motorino. Le mille miglia lontano dall’altro finale grottesco, così tipicamente ‘italiota’, a magnarsi la mozzarella in carrozza: Chi ha avuto ha avuto ha avuto/chi ha dato ha dato ha dato/scurdammoce ‘o passato/nun ce pensamme ‘cchiù. Dunque lasciamo stare questi paragoni – ridicoli, inesistenti, e perfino offensivi – e parliamo di questo splendido film, pregno, anzi traboccante di vita, di vitalità, di sentimenti, di esistenza, di realtà. Slimane è un immigrato maghrebino, operaio sessantunenne nei cantieri navali di Sète, vicino a Marsiglia, e sta per essere licenziato: la globalizzazione arriva anche qui. È stanco, dopo trentacinque anni di lavoro, stanco non solo nel corpo, ma anche nello spirito: perché gli pare di non aver fatto abbastanza per la sua famiglia, anzi le sue famiglie. Slimane infatti è divorziato, e tuttavia si barcamena tra la prima famiglia – una ex moglie egoista e brontolona, dei figli che non lo capiscono – e quella nuova che si è rifatto con la proprietaria di un alberghetto e la figlia diciottenne, che lo ama come se fosse suo padre. Così, quando gli si presenta l’occasione di una barca da demolire, ha un’idea: comprarla e trasformarla in un ristorante di cibi tipici del suo paese, coinvolgendo nell’impresa tutta la sua multiforme famiglia: la ex moglie per il suo talento culinario, i figli per la ristrutturazione della barca e per la gestione del ristorante, Rym, la figlia acquisita, per aiutarlo nel disbrigo delle pratiche. Lo inaugurerà con una serata offerta ai maggiorenti del paese, per convincerli a dargli i finanziamenti e le autorizzazioni di cui ha bisogno. Ma, per uno stupido incidente, manca il piatto forte, il couscous di pesce. Gli ospiti cominciano a irritarsi, tutto sta per fallire: quando Rym decide di salvare la situazione, mettendo in gioco direttamente se stessa e il suo affetto per Slimane. La vita, quella vera, è il filo di cui è costituita la ‘trama’ di questo bellissimo film. I problemi di lavoro, di vita quotidiana, di salario, così autentici, semplicemente presenti e concreti. L’identità culturale di questa gente, che si sente “francese” pur conservando ancora un fortissimo legame con la terra d’origine. Il che non impedisce loro, però, di ‘praticare’ una multiculturalità concreta e reale. Julia, la moglie ucraina di Majid, uno dei figli di Slimane, e suo fratello Sergej, vengono più volte e sinceramente invitati ad ‘entrare’ nella loro rete di relazioni, e non sarà colpa loro se ciò non avviene, bensì del tradimento di Majid. E comunque, è a Slimane, suo ‘padre putativo’ che lei si rivolge con tutta la sua rabbia quando lo scopre. Poi c’è l’amicizia, un valore ‘vecchio’, obsoleto, da villaggio, che tuttavia il lavoro e la fatica non sono riusciti a distruggere, e che unisce tutto l’ambiente attorno a Slimane. E poi, sopra tutto, la famiglia. La famiglia è il cardine dell’esistenza di tutti, qui dentro. Non importano i divorzi, i nuovi matrimoni, i figli di sangue o acquisiti: c’è questo legame intenso e sotterraneo, non definibile o codificabile ma concretissimo, protettivo, vero; e il dramma di Julia è proprio quello di non essere riuscita ad entrarci, in quella famiglia, di sentirsene ‘estranea’. La famiglia è dove si trova compagnia, dove si trova ascolto, dove si sfugge alla solitudine, è depositaria di valori semplici ed elementari ma basilari. E’ talmente importante, talmente ‘fondante’, che essa agisce anche ‘per assenza’, e naturalmente con esiti negativi. Perché tout se tient, in questo bellissimo film, come, del resto, in ogni vera opera d’arte. Chi provoca l’incidente in seguito al quale va persa la pentola di couscous? Majid: il figlio ‘degenere’, superficiale e puttaniere, quello che non ha mai introiettato i valori dell’unità familiare e della fedeltà; quello che non ‘rispetta’ il padre, al punto da invitarlo senza mezzi termini a togliersi di mezzo e a tornare al paese d’origine. Ancora. Quando la prima moglie di Slimane ha finito di cuocere il couscous, mette da parte il “piatto del povero”, e chiede a Julia di andarlo a portare al primo povero che incontra. Ma Julia ‘si vergogna’, e rifiuta: proprio Julia, esclusa suo malgrado dalla famiglia, ma che appunto per questo non ha nemmeno lei potuto assorbirne tradizioni e valori. Sarà in seguito a quel rifiuto che Slimane non troverà in casa la ex moglie, e morirà, inseguendo il suo motorino. E ancora, per finire, un’osservazione che credo originale e importante. Chi sono i tre teppisti che rubano il motorino? Non li vediamo mai in faccia, ma certamente possiamo immaginarceli: ragazzi, appunto, senza una famiglia stabile, senza nessuno che cucini qualcosa di buono per loro, che li riunisca attorno ad un tavolo, che parli con loro, che mescoli la sua esistenza alle loro. E’ un film di parole e di dialoghi, CousCous: fitti, intensi, rumorosi, sovrapponentisi. Non sono affatto esageratamente lunghi, come qualcuno ha detto (per non parlare degli sciagurati che li hanno addebitati ad ‘improvvisazione’). In essi, al contrario, si recupera e vive la dimensione umanissima del conversare, del raccontarsi e del confidarsi, che la modernità e il progresso hanno distrutto, e che sono invece tipicamente costitutive delle culture preindustriali. Anche da questi sprizzano la vita, la verità dell’esistere e del fare quotidiani. Ed è, anche e forse soprattutto, un film di ‘femmine’. Belle o brutte, qui non ha nessunissima importanza. Ma vere, sincere, sensuali, materne, ironiche, buone e qualche volta cattive, punto di riferimento e portatrici, in fondo, di valori essenziali e basilari. Compreso quello del cibo, che in quest’universo è ancora cultura, segno identitario, elemento di unione e di collegamento: che esse soprattutto gestiscono, e che i maschi non possono far altro che apprezzare e riconoscere. Donne ‘sacerdotesse’ di vita, per cui la tanto ‘chiacchierata’ danza del ventre non ha nulla di osceno o di ruffianamente ammiccante – come invece la gran parte delle scene di sesso nel cinema contemporaneo, nella quasi totalità sostanzialmente inutili – ma esprime invece una sensualità ‘pagana’, naturale e primigenia, che se allude alla sessualità lo fa solo intendendo anch’essa come pulsione vitale ed essenziale: come il cibo, come la parola.  Irrompono sullo schermo, anche loro assolutamente veri, gli attori scelti da Kechiche, quasi tutti non professionisti, magnifici e sinceri. Bravissimo Habib Boufares nel dar vita ad uno Slimane umile, mite e stanco, ma determinato a realizzare il suo ultimo sogno; bravissima Hafsia Herzi nella parte di Rym, intelligente e sensibile. Bravissimo Abdel Kechiche nel creare un film che quasi fatichiamo a inquadrare e a percepire, tanto è lontano da quanto siamo abituati a vedere: senza artifici, senza l’ombra di una qualsiasi snobistica intellettualità, senza tesi ideologiche da dimostrare. ‘Semplicemente’, uno squarcio di vitalità autentico e commovente, che lascia la bocca pulita e il cuore allegro.

 

La conversazione (F.F. Coppola, USA, 1974), 18.45, Sky

Raro passaggio di questo che è, per me, il più bel film di Coppola. Un incubo allucinato, in cui uno specialista di intercettazioni rimane preso nella sua stessa rete, costituita non più solo da fili e microfoni, ma anche dai fantasmi e dalle paure della sua stessa mente. Semplicemente strepitoso Gene Hackman, del resto come sempre. Assolutissimamente imperdibile.

 

 

Martedì 2 agosto

 

Mad city (Costa-Gavras, USA, 1997), 21.15, DT

Anche se non è uno dei capolavori di Costa-Gavras, è comunque un film intelligente, ben costruito e ottimamente interpretato da Dustin Hoffman. La storia è quella di un guardiano notturno di un museo, che, per riavere il posto da cui è stato licenziato, sequestra i visitatori minacciando di ucciderli, e del giornalista cinico che, fiutando lo scoop e i vantaggi per la propria carriera, gli si fa amico. Una interessante riflessione sulle capacità di manipolazione della televisione nei confronti della cosiddetta ‘libera pubblica opinione’. Da vedere.

 

 

Mercoledì 3 agosto

 

La classe operaia va in paradiso (E. Petri, Italia, 1972), 22.50, DT

Nella vicenda dell’operaio milanese, prima ‘servo del padrone’ e poi contestatore e bandiera delle lotte sindacali, Petri tentò un ritratto della condizione operaia di quegli anni e dei suoi rapporti con la società (contestazione studentesca, nuova sinistra, progresso tecnologico ecc.). Tuttavia, l’eccessivo ricorso alla satira rese il film un’arma spuntata ed inoffensiva, dove si ride un po’ troppo e tutto sommato non si pensa poi molto. Oggi sembra la narrazione da un altro mondo, di cui nemmeno comprendiamo le coordinate.

 

Capricorne one (P. Hyams, USA, 1978), 17.15, DT

Vecchio ma interessante thrilling fantascientifico: una spedizione americana su Marte non può partire per un guasto, ma viene ugualmente inventata virtualmente per il pubblico e la tv. Con tutte le balle che gli americani ci hanno raccontato dalla fine della guerra ad oggi, vale la pena di rivederlo, tanto più che molti sono convinti che lo sbarco sulla Luna non sia mai avvenuto, e che le cose siano andate proprio così. Con tutte quelle, poi, che ci hanno raccontato sull’Irak e sull’Afghanistan, quasi quasi ci credo.

 

Robin e Marian (R. Lester, GB, 1976), 16.25, DT

Robin Hood, ormai anziano e pieno di acciacchi, torna dalla Crociata e tenta di ricostruire il vecchio amore con Marian, che ormai si è ritirata in convento. Il tutto in una chiave narrativa grottesca e farsesca assolutamente spoetizzante, che rende la vicenda estremamente irritante, e quasi invedibile.

 

Miami vice (M. Mann, USA, 2006), 21.15, DT

Anche se – diciamolo subito – sarebbe stato difficile ripetere l’exploit di un film puro e disperato come Collateral (in assoluto il più bel film di Mann, assieme all’Ultimo dei Mohicani), tuttavia anche questa volta il maestro ha dato una lezione di cinema, ed anche questa volta l’ha fatto con una storia apparentemente ‘fredda’, perché già vista mille volte, quella di due agenti infiltrati in una grossa organizzazione criminale per smantellarla (ma l’aveva già fatto in The Heat, con lo ‘stereotipo’ della caccia tra il vecchio poliziotto e il vecchio criminale). Anzi, qui si è addirittura preso il lusso di fare quello che potrebbe sembrare un remake della vecchia e (immeritatamente) celebre serie TV. Con la quale questo film non ha nulla in comune, se non il titolo, e lo schema dei due sbirri che vivono pericolosamente. Tutto il resto è Mann, il solito Mann: visionario, entusiasmante, scenografico, col suo incredibile senso del ritmo e della composizione delle scene (ho sempre pensato che, se non avesse fatto il regista, forse avrebbe fatto il coreografo). Il solito Mann, ‘esteta’, se vogliamo, per il quale par quasi che ad essere importante non sia tanto la storia, ma il modo in cui viene raccontata, anzi: mostrata. E’ questo, ancora una volta, che entusiasma e turba, in questo suo nuovo film. Tutto diventa emozione pura: la tensione notturna in una discoteca (par quasi un fissazione per lui: ricordate il sublime ‘balletto’ della sparatoria nella discoteca in Collateral), la scia di un off-shore sul mare, i murales che ‘esplodono’ dai muri scrostati di Haiti, le palme agitate dal vento davanti ad un appartamento vuoto, la violenza macellaia di una sparatoria. Tutto sembra ‘già visto’, in questo film, e tutto è diverso, tutto viene ‘da dentro’ le cose, e si scrive dentro di noi. Come, per esempio, l’inseguimento sull’autostrada, che non è un videogioco alla Fast&Furious, ma una corsa verso la morte. Eppure, non è estetismo puro e fine a se stesso, il suo. Lo dicono i cieli spesso in tempesta, i lampi inquietanti che graffiano il buio, i tuoni, che minacciano distruzione. Lo dice la fotografia, a volte sgranata fino ad entrare nei pori della pelle e negli animi, a volte lucidissima, come l’occhio di uno scienziato. Comunque, ancora una volta, Mann ci da un film ‘culturale’: non un’indagine poliziesca, che ci avrebbe annoiato a morte, ma un’indagine nei nostri luoghi oscuri – quelli del nostro animo e quelli attorno a noi. Forse, a ripensarci, la distanza dal killer nichilista di Collateral non è poi così grande. Assolutissimamente imperdibile.

 

American gangster (R. Scott, USA, 2007), 23.30, DT

Quando ad un regista sono rimasti solo un po’ di tecnica e di mestiere, e da anni non sa più cosa siano passione e ‘genio’, allora forse sarebbe meglio che tornasse al suo antico mestiere: il pubblicitario. Ne guadagnerebbero la pubblicità, che forse sarebbe di qualità un po’ migliore di quella attuale, e indubbiamente il cinema, che non dovrebbe registrare delusioni come questa. Così sembra essere, ormai, per Ridley Scott, che dopo aver cominciato con tre film che hanno fatto la storia del cinema – Alien, I Duellanti, Blade Runner, e potremmo aggiungerci anche il bellissimo Legend – ha poi inanellato una serie di fallimenti artistici ed intellettuali lunga quasi come il resto della sua filmografia. Narrasi la storia vera di Frank Lucas, prima servitore silenzioso di Bumpy Johnson, piccolo boss della malavita nera di New York negli anni Settanta, e poi suo erede. Frank allargherà a dismisura l’impero, e realizzerà guadagni favolosi importando direttamente l’eroina dalla Thailandia e vendendola a minor prezzo e semipura, eliminando dal mercato tutti gli altri clan di spacciatori. Il tutto, con la connivenza di una polizia quasi completamente corrotta. Sarà difficile scoprirlo, sia per i suoi astuti metodi di importazione sia perché nessuno riesce a credere che un nero possa giungere tanto in alto, ma alla fine un poliziotto ci riesce, e risalendo la catena arriva fino a lui, lo smaschera, lo fa condannare a settant’anni. Solo rinunciando a tutti i suoi beni e collaborando col suo persecutore per denunciare i poliziotti corrotti, Lucas riuscirà a farsi ridurre la pena a quindici anni. Tutto qui, e non c’è davvero altro, se non due ore e mezzo di lineare e noiosissima cronaca (peggio di un film di Spike Lee). Spessore di approfondimento storico-sociologico-politico: inesistente, nonostante gli spezzoni di telegiornali d’epoca cacciati dentro a forza, che servono sì a datare le vicende, ma vi rimangono ‘sostanzialmente’ estranei: nonostante troppe battute e perfino il titolo la nominino, lì dentro, paradossalmente, l’America pare del tutto assente. Lo si sarebbe potuto intitolare ‘Vita del gangster F.L.’: a farlo sarebbe bastato Carlo Lucarelli in TV, e magari veniva anche meglio. Spessore psicologico dei personaggi: pari a zero. Denzel Washington prova invano a fare il cattivo, ma quasi gli scappa da ridere. Russel Crowe sembra il fratello di Muccino nei vecchi spot della Tim, ma più loffio e stanco, con un parrucchino che pare un Puffo; a tentare di dargli consistenza, nient’altro che una spruzzatina di stereotipo del poliziotto-onesto-che-sacrifica-anche-la-famiglia-al-dovere (meglio i personaggi analoghi di Steven Seagal). Spessore sociologico del film: inferiore a zero. Se si eccettua la scena in cui, mentre Lucas a tavola con tutta la famiglia pontifica su amore e valori familiari, la macchina ci mostra due brevi flash di tossici devastati dalla droga: sfacciata e penosa citazione della scena del massacro durante il battesimo del Padrino; e comunque, a questa scena, in tutto e per tutto, è affidata nel film la ‘caratterizzazione morale’ di Lucas. Per il resto, ombre senza vita, che si scordano un istante dopo averle viste. Come questo film.

 

 

Giovedì 4 agosto

 

Vatel (R. Joffé, Francia/GB, 2000), 21.00, DT

Nella primavera del 1671, Luigi XIV annuncia al Principe di Condé una visita di tre giorni. Trattandosi di ‘un’offerta che non si può rifiutare’, il Principe, pur sovraccarico di debiti, chiede a Vatel, il suo maestro di cerimonie, di organizzargli tre giorni fantasmagorici, tra giochi, feste e pranzi memorabili. A prezzo della propria consunzione, Vatel riesce nell’impresa, ma la sua dedizione non viene assolutamente riconosciuta da una corte cinica e crudele, di cui egli stesso finirà vittima. Capolavoro di ricostruzione storica e di indagine morale, tragico e fastoso, eroico e romantico, non si capisce come questa meraviglia sia uscita dalle mani di un regista che, a parte Mission (1986), è da seppellire sotto un pietoso silenzio. Grandissimo Depardieu e magnifica la Thurman. Assolutissimamente imperdibile: poi, per completare il ‘panorama’, correte a rivedervi il meraviglioso Marie Antoinette di Sofia Coppola e il coltissimo Il mondo nuovo di Ettore Scola.

 

Contact (M. Goldenberg, USA, 1997), 12.45, DT

Una scemenzuola, oltretutto noiosa, sul contatto con gli alieni: e Jodie Foster è eccitante come un congelatore al Polo. Ma perché, prima di fare queste boiate, non vanno umilmente a rivedersi un po’ di fantascienza americana Anni Cinquanta?

 

Quel treno per Yuma (J. Mangold, USA, 2007), 21.15, DT

Non è vero che i generi muoiono e non possono essere resuscitati. I generi non muoiono mai, ed eventualmente il problema è che a ‘resuscitarli’ sia la mano di un genio, il tocco di un artista. Si veda, per esempio, il bellissimo Gli spietati (USA, 1992), in cui un Maestro come Clint Eastwood, proprio nel momento in cui sembra celebrare, con un film crepuscolare e ‘decadente’, la fine dell’epopea western, al tempo stesso ci dà un film perfetto, che di quell’epopea è una massima esaltazione. Così pure, non c’è nulla di male ad usare gli stereotipi – il Mito ne è pieno! – purché essi sfuggano alla bassa condizione della macchietta da caratterista e diventino simbolo ‘universale’. Tutte considerazioni, queste, evidentemente del tutto estranee, a chi ha concepito e messo in atto questo film (non è che la filmografia di Mangold sia precisamente infarcita di capolavori) in cui l’epos è assente in misura assoluta, e che addirittura irrita per la sua balordaggine. Non si sa da che parte cominciare. O forse sì: certo dalla sceneggiatura, che vola raso terra, tra banalità, stereotipi – appunto! – involontarie cadute nel ridicolo, incongruenze. Il bandito Ben Wade è “Il Bandito”: gentile con le donne, che gli cadono ai piedi come cachi, spietato coi traditori e i nemici, uomo d’onore con gli uomini d’onore; e per chi gli tocca la Mamma sono c**** amari. Dan Evans, l’eroe suo malgrado, è anche lui “L’Eroe-suo-malgrado”: pulito, semplice, onesto, che preferisce farsi ammazzare piuttosto di rubare un cent, che non avrebbe mai voluto essere lì dov’è, ma che ora che ci si trova ha un onore da difendere, e lo fa fino alla morte. Li accompagna nel loro viaggio verso l’appuntamento fatale (l’avrete visto tutti l’originale del 1957 di Delmer Daves, che ora si starà rivoltando nella tomba) un gruppo di comprimari abbastanza normali e prevedibili. Un’eccezione (in negativo) è il figlio di Dan, una figura all’insegna del battistiano “io vorrei, non vorrei, ma se vuoi”, che passa a corrente alternata dall’ammirazione per il Bandito a quella per L’Eroe-suo-malgrado, e non si capisce per quale mai ragione alla fine scelga il secondo, se non per la volontà incomprensibile del regista: “Mi hanno disegnato così” potrebbe ripetere anche lui con Roger Rabbit. Le avventure si susseguono – con una certa fantasia, bisogna ammettere – ma bisogna anche riconoscere che la sfiga di Wade, che cento volte arriva sul punto di riconquistare la libertà e altrettante fallisce per un pelo, è davvero troppa, e quando si arriva alla scena nella tenda degli operai cinesi è difficile soffocare una risata. Come pure è difficile non ridere durante la fuga tra le case di Contention, con questi due che, come un incrocio tra Batman e James Bond, sfuggono ad una inimmaginabile pioggia di pallottole; o ascoltando la frase: “Non durerei due minuti come capo di questa banda se non fossi marcio dentro”, che candidiamo immediatamente all’Oscar per la battuta più artificiosa e falsa che si sia sentita al cinema da decenni. E Wade? Wade che, dopo un assurdo dialogo finale, accetta di andare a farsi impiccare solo per permettere a Evans di dimostrare a suo figlio di essere “un uomo”? E che ammazza tutti appunto perché lui ‘ha capito’? Ma loro, poveri sfigati, come possono capire che lui ha capito?! “Ma mi faccia il piacere!” direbbe Totò. Da questa fiera dell’improbabilità, una sola figura emerge, prepotente, davvero epica, e nemmeno si capisce come sia andata a finire in un film così: l’aiutante di Wade, Charlie, il pistolero gay, l’unico Franti, l’unico vero vilain del gruppo, fatto come Dio comanda: perverso, feroce, spietato, crudele, beffardo, immorale ed amorale, intimamente malvagio. Un autentico ‘eroe negativo’, uno splendido personaggio – sembra scritto da Sergio Leone – per il quale viene immediato e istintivo ‘parteggiare’, splendidamente interpretato da Ben Foster, cui auguriamo miglior fortuna e miglior compagnia. Cosa aggiungere ancora. Russel Crowe e Christian Bale non interpretano i personaggi, ma semplicemente mettono in atto una gara di recitazione, in questo ennesimo ed inutile remake, a proposito del quale ancora una volta invochiamo, dalle Nazioni Unite, una legge composta di un solo articolo: “E’ severamente proibito fare remakes”. Punto.

 

 

Venerdì 5 agosto

 

La tenda rossa (M.K. Kalatozov, URSS/Italia, 1969), 14.40, Sky

Commovente e spettacolare ricostruzione dell’impresa di Umberto Nobile, che nel 1928, col dirigibile Italia, sorvolò il Polo Nord, schiantandosi poi sui ghiacci, e delle peripezie dei superstiti. Un gran bel film, forte e sincero, che da tempo non appariva in tv. Imperdibile.

 

Johnny Guitar (N. Ray, USA, 1954), 23.10, Sky

Dopo la guerra di Secessione, una donna gestisce un saloon e deve barcamenarsi tra i potenti del luogo ed una banda di fuorilegge che si insediano da lei. L’aiuta e la protegge il pistolero Johnny Guitar, suo ex amante ma ancora segretamente innamorato di lei. Come dice benissimo il Morandini, “un capolavoro di lirismo barocco”, una storia d’amore ‘strappalacrime’, una figura femminile forte e commovente, una colonna sonora da sciogliersi. Non ve lo perdete, anche perché questo è uno dei suoi rari passaggi TV.

 


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