Pubblicato da: giulianolapostata | 23 luglio 2011

Multivisioni – Sabato 23 luglio 2011

Multivisioni

Consigli appassionati su cosa vedere – e non vedere! – in TV

“Il cinema americano ha successo perché loro fanno bene i film. Noi facciamo bene la pizza”

R. Benigni

 “Il cinema italiano è deprimente”

Q. Tarantino

 “Un qualsiasi stupido film americano contiene sempre un insegnamento, a differenza di un qualsiasi artistico film inglese”

 L. Wittgenstein

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Sabato 23 luglio

 

Il silenzio sul mare (T. Kitano, Giappone, 1991), Rai3, 01.10

Non l’ho mai visto, ma un film di Kitano va segnalato a priori, perché è un genio e un poeta assoluti.

 

Sindrome cinese (J. Bridges, USA, 1979), 23.40, DT

Finalmente, dopo la castrofe di Fukushima, si ricomincia  a programmare questo bel film di trent’anni fa, che, accusato a suo tempo di eccessivo allarmismo e di isteria antinuclearista, dimostra oggi per l’ennesima volta, dopo Chernobyl e Fukushima, la sua terribile carica profetica. Un guasto ad una centrale nucleare americana potrebbe provocare la fusione del nocciolo. Il governo vorrebbe insabbiare la faccenda, a costo anche di una tragedia, ma un coraggioso direttore e due impavidi cronisti si impegnano per smascherare tutto. Ottimo esempio di cinema politico e civile americano, che ha tra i suoi punti di forza uno dei miti americani: la libertà di stampa. Con Jane Fonda e Jack Lemmon, decisamente più bravo nelle parti drammatiche che in quelle comiche che si sono sempre ostinati ad appiccicargli addosso (vedi Missing, Salvate la tigre ecc.). Imperdibile.

 

 

Domenica 24 luglio

 

Alla deriva (H. Horn, USA, 2006), 20.55, Italia1

Errare è umano, lo sappiamo, ma perseverare è diabolico, e perciò ricadute come queste sono difficili da perdonare. Già l’aveva fatto C. Kentis – non proprio una stella della regia … – nel 2006, con Open Water, la storia di quattro sub che vengono abbandonati al largo per errore e muoiono di inedia e di paura. Sceneggiatura grottesca, oceani di noia, uno squalo inappetente che purtroppo non si mangia il regista. Qui un altro illustre sconosciuto ci riprova – a’ impunito, direbbero a Roma – con una storia praticamente identica. Quattro tizi, ancora più imbranati dei primi, si tuffano dallo yacht in mare aperto ma poi non riescono a risalire. La maggior botta di brivido è data da una bambina di sei mesi abbandonata in cabina che piange perché ha fame: riuscirà la sue eroica e complessata mammina a salvarla? Anche qui, abissi di sopore e lampi pesudofilosofici che ‘arricchiscono’ una sceneggiatura già disgraziata di suo: “Io credo che lassù ci sia qualcosa di più grande, altrimenti saremmo finiti”. Andate a letto.

 

Non aprite quella porta (T. Hooper, USA, 1974), 23.05, DT

In una cittadina americana di una provincia desolata, resa ancor più disperata dallo spostamento dell’autostrada, che l’ha gettata nell’abbandono e nella miseria, un gruppo di ragazzi incappa in una casa nei campi abitata da una famiglia che prima cucinava hamburger per i viaggiatori, e che ora la povertà e l’isolamento hanno precipitato nella follia assoluta. Celeberrimo capolavoro dell’horror moderno, NAQP è una splendida metafora del male oscuro che cova sotto la coperta falsamente tranquillizzante del sogno americano. Hooper è genio e maestro nel confezionare un film che terrorizza oltre ogni limite (con un contributo minimo di effetti speciali: niente a che vedere con la serie infinita di recenti ed inutili rifacimenti, tutti bassissima macelleria), e che al tempo stesso fa riflettere. Semplicemente sublime la fotografia: l’immagine sgranata della ragazza resa pazza dall’orrore, che, alla fine del film, irrompe sull’autostrada inseguita da Faccia-di-cuoio brandente la motosega, è da Oscar. Assolutamente imperdibile.

 

 

Lunedì 25 luglio

 

Frank Costello Faccia d’Angelo (J-P. Melville, Francia/Italia, 1967), 13.25, DT

Un killer a pagamento – silenzioso, discreto, invisibile – viene tradito dal suo ‘padrone’, e si lascia uccidere per non venire meno al proprio codice d’onore (il titolo originale è Le samurai). Maestro inarrivabile del noir, Melville scrive qui uno dei suoi film più belli, con la collaborazione di un Alain Delon magnetico e adamantino e dello splendido b/n di Henri Decae. Una lezione di cinema ad ogni fotogramma. Assolutamente imperdibile.

 

Carlito’s way (B. de Palma, USA, 1993), 18.35, Sky

1975. Carlos Brigante, spacciatore e malavitoso, torna ad Harlem dopo cinque anni di prigione. Sembrano pochi, ma è passata una vita. Tutti lo accolgono col rispetto e l’entusiasmo dovuti ad una leggenda, ma – Carlito lo percepisce benissimo – le leggende sono roba vecchia. Nuovi stronzetti rampanti scalpitano per strappargli lo stuoino di sotto ai piedi, e tagliarsi ingordamente una fetta di torta molto più grande di quella di cui si accontentava lui. Così Carlito decide di andarsene. Rientra nel giro ma tenendosi fuori dalle porcherie, e solo per quel tanto che gli permetterà di metter da parte il gruzzoletto destinato a realizzare il suo sogno: fuggire alla Bahamas con l’unica donna che abbia mai amato. Però, Carlito è anche un ‘uomo d’onore’: i debiti vanno pagati, gli amici vanno aiutati. Solo che, e se ne accorgerà a sue spese, anche quel codice è roba vecchia, e gli amici non sono più quelli di una volta. Lunghissimo flash back – 144” che scorrono senza un solo istante di noia – CW è un capolavoro senza confronti, un’inarrivabile lezione di Cinema, un film che emoziona e turba quasi più per la sua perfezione stilistica e tecnica che per le emozioni che mette in scena. Noir ‘stereotipo’ fin nelle midolla, CW rielabora e rinnova quell’eredità offrendo una vicenda nuova e fresca, commovente e coinvolgente, ulteriore testimonianza di come questa sia l’opera di un Maestro. Gli attori sono magnificamente bravi, ma anch’essi – come dovrebbe sempre essere – strumenti che il Maestro suona alla sua bisogna. Al Pacino è il malavitoso che sogna invano di sfuggire al proprio destino; Sean Penn è l’avvocato corrotto, omuncolo schiavo della propria viltà e della propria ignavia prima ancora che dell’alcol e della coca; Penelope Ann Miller è poi al di là di ogni lode, interprete di un personaggio che sembra ‘clonato’ dai personaggi migliori di Kim Basinger, ma che per intensità ed umanità non solo non la fa rimpiangere, ma addirittura la fa scordare. Assolutissimamente imperdibile.

 

 

Martedì 26 luglio

 

Open water (C. Kentis, USA, 2003), 23.00, DT

Siccome al peggio non c’è limite, dopo la boiata di Alla deriva (vedi sopra, domenica 24) ecco la superboiata. Se siete dei masochisti potete provare. Comunque, congratulazioni all’autore del trailer. Sì, tutte le congratulazioni a lui, perché non c’è dubbio: il trailer è molto, ma molto, più eccitante del film, che è, invece, una delle più noiose boiate mai viste in vita mia. La storia la sapete. Una coppia un po’ stressata fugge dalla città per una vacanza last minute alle Bahamas. Appassionati subacquei, i due partecipano ad un’immersione di gruppo al largo, ma per errore la barca riparte prima che loro riemergano, abbandonandoli così in mezzo al mare. I due trascorrono così tutta la giornata a galla, aspettando che vengano a riprenderli. Combattono la nausea, le meduse, avvistano vari squali. Verso sera lui viene morso ad una gamba, e durante la notte muore, un po’ per la perdita di sangue e un po’ per lo stress. Lei ne custodisce il cadavere fino al giorno dopo, ma proprio quando i soccorsi stanno per arrivare, vinta dalla disperazione, si lascia annegare. Il plot non sarebbe male, se ci pensate, ma bisognerebbe metterci un po’ di pepe. Qui, invece, non succede niente dall’inizio alla fine, se si esclude, dopo una decina di minuti, una generosa esposizione delle grazie di Blanchard Ryan, che il regista deve aver messo lì per farsi perdonare in anticipo la boiata che stava per propinarci (grazie piuttosto debordanti e mollicce, peraltro). Le riprese di questi due a mollo nell’acqua sono di una piattezza mortale: l’avranno anche girato in un mare vero, come il loro ufficio stampa si è affannato a rivelare urbi et orbi, ma vi assicuro che dà tanto l’impressione di una piscina con la macchina per fare le onde, e ad ogni istante ci si aspetta che da dietro l’inquadratura spunti uno della troupe con un asciugamano. Tensione, sotto zero. Lo squalo morde e fugge, non si sa perché. Non gli piace la carne bianca? Ci mancava la senape sopra? Mistero. A parte ciò, non succede nient’altro per settantanove minuti. I due stanno a mollo in piscina, come dicevo, scambiandosi battute allucinanti, per le quali lo sceneggiatore (che, guarda caso, è lo stesso regista) meriterebbe come minimo di essere dato in pasto agli squali (“E pensare che io volevo andare a sciare”. “Devo fare la pipì”; “Bene, così per un po’ staremo al caldo”). L’impegno recitativo (si fa per dire) è assolutamente nullo: sono più espressive le murene sott’acqua. I minuti passano, e la noia uccide (purtroppo non gli attori né il regista). Ogni tanto, per farci capire che dovremmo trovarci di fronte ad una situazione drammatica, il regista alterna alla piscina spezzoni di gente in spiaggia che si diverte. Manca solo la didascalia per i cretini: “Capita la differenza? Loro si divertono e invece questi qui sono in questa situazione. L’avete capito che è un film drammatico o ve lo dobbiamo ripetere?”. Ce lo ripetono, varie volte. Alla fine, finalmente, è finita. Ci si alza incazzati neri, rimpiangendo acutamente il tempo perso, pensando che ci si poteva rivedere il dvd dello Squalo, pensando che se incontro l’autore del trailer gli squali glie lo faccio vedere io.

 

Scent of a woman (M. Brest, USA, 1992), 21.00, DT

Se esiste al mondo ancora qualcuno che non sia innamorato di Al Pacino, capitolerà certamente davanti a questo splendido personaggio, in superficie amaro e disilluso, ma che nel profondo di sé agita rimpianti e sogni. Al Pacino è Frank Slade, un alto ufficiale dell’esercito cui “è sempre piaciuto sputare in faccia alla gente importante”, e che durante un incidente frutto della sua stessa arroganza è rimasto cieco. Oggi vive, mal tollerato, presso una figlia: ringhioso, rancoroso, pieno di rabbia col mondo intero, non perde occasione per rendersi odioso e insopportabile. Durante un’assenza, la figlia lo affida a Charlie, uno studente dell’ultimo anno di college, che cerca di guadagnarsi qualche soldo con lavoretti di questo tipo. Charlie pensa che si tratti di un tranquillo e noioso week end, ma appena la figlia è uscita dalla porta, Frank si scatena. Ha organizzato tutto per un fine settimana di lusso e trasgressione a New York, dopo di che ha deciso di uccidersi: non la sopporta più, quella vita, “perché lui non ce l’ha, una vita”. Poco per volta, Charlie riuscirà a far breccia in quella corazza di cinismo, fino a stabilire con Frank un rapporto filiale: lui troverà la figura paterna forte che non ha mai avuto (“il mio patrigno è uno stronzo”), Frank una speranza per cui spendersi. Gigantesca la prova di Al Pacino, aspro e velenoso distruttore della quiete familiare – il pranzo del Ringraziamento a casa del fratello – ma che sa ritrovare dentro di sé le illusioni perdute: semplicemente commoventi la raffinatissima cortesia e la signorilità con cui abborda la giovane (e bravissima) Gabrielle Anwar e la trascina in un delicatissimo tango, mentre il suo sguardo spento vaga alla ricerca di chissà quali amori lontani. Assolutissimamente imperdibile.

 

 

Mercoledì 27 luglio

 

L’angolo rosso (J. Avnet, USA, 1998), 18.55, Sky

Un ricco avvocato americano è a Pechino per concludere un ricchissimo affare per conto di una grossa compagnia televisiva USA, a danno di un importante concorrente. Dopo che le cose sono andate a buon fine, in un night rimorchia quella che sembra una qualsiasi prostituta e se la porta a letto. Ma la mattina si risveglia intontito, con la ragazza morta a fianco: non una prostituta ma la figlia di un alto ufficiale dell’esercito, che ora vuole la sua morte. La giovane avvocato d’ufficio che viene nominata a difenderlo ha pochissime speranze di sottrarlo alla fucilazione, ma il fascino del bel Gere trionferà, e giustizia sarà fatta. Ora. È  verissimo che la Cina è la più spaventosa dittatura nazista oggi esistente al mondo; è verissimo che, tra le altre sue infamie, è colpevole del genocidio ed etnocidio del popolo Tibetano. Ma niente, nemmeno questo, giustifica la fattura di un film brutto come questo. Le battute sono da schiaffi (“Io sarò per sempre la tua famiglia dall’altra parte del mondo”); la sceneggiatura è confusa, disordinata, lentissima; la giovane Bai Ling è tanto (abbastanza) graziosa ma totalmente incapace; Richard Gere è al minimo sindacale. Semplicemente invedibile.

 

L’Albatross (R. Scott, USA, 1995), 21.00, DT

Un gruppo di liceali americani si imbarca su una nave-scuola per una lunga crociera nel Pacifico: le avversità li faranno diventare uomini. Probabilmente il peggior film di R. Scott – ma è una bella gara con Soldato Jane (1997) e Black Hawk Down (2001) – insopportabilmente retorico e stereotipo, e se il modello era Capitani coraggiosi (V. Fleming, USA, 1937), allora c’è da mettersi le mani nei capelli. Questo sembra la versione allungata di uno spot di Capitan Findus, e non c’è altro da dire.

 

 

Giovedì 28 luglio

 

Banditi a Milano (C. Lizzani, Italia, 1968), 21.10 DT

Uno dei migliori film di Lizzani, che racconta la fine dell’  ‘epopea’ della Banda Cavallero, sgominata nel 1967 dopo diassette sanguinose rapine. Non si tratta di un’esaltazione superomistica e ‘fascista’ dell’eroe negativo, alla ‘Meglio un giorno da leoni che cent’anni da pecora’, ma, al contrario, un’analisi della rabbia eversiva e ‘rivoluzionaria’ che in quegli anni attraversava tutti gli strati della società, perfino quelli del crimine. Gian Maria Volonté grandissimo come il solito. Imperdibile.

 

 

Venerdì 29 luglio

 

Quien sabe? (D. Damiani, Italia, 1966), 16.45, DT

Un killer yankee viene incaricato di uccidere un rivoluzionario messicano, e per compiere la missione si aggrega alla sua banda. Riesce a compiere il suo lavoro, ma viene ucciso a sua volta da un altro componente della banda. Tra gli ‘western all’italiana’ – ho sempre considerato diffamante e volgare la dizione ‘spaghetti western’ – uno dei più belli, di grande intensità umana e ‘politica’. Imperdibile.

 


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